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Ed eccoci ora a parlare, si intende in modo sommario e non organico, dei nuraghi, di queste misteriose vestigia di un remoto e misterioso passato, sparse più o meno numerose in tutta l'Isola nostra.
E cominciamo il discorso (che sarà un po' lungo), come quasi d'obbligo per questa rubrica, dal nome: nuraghe. È da rilevare, innanzi tutto, un fatto curioso, a questo proposito. Il nome nostrano di nuraghe, e lo si vedrà subito, è antichissimo, ma non appare, neppure in forma adattata alle caratteristiche di ciascuna, in nessuna delle lingue antiche conosciute. Gli scrittori greci, geografi e storici, li chiamano deidaleia o più spesso thòloi. Nel De mirabilibus (traduzione latina di un'opera di scrittore greco attribuita ad Aristotele), si legge che in Sardegna si trovano molte costruzioni fatte «secondo la maniera antica dei Greci» (o secondo la maniera degli antichi Greci). Comunque il nome di thòloi è un riferimento evidente alle caratteristiche costruttive più importanti dei nuraghi. Thòlos, infatti, in greco designa, proprio, sia il modo con cui è costruita, strutturalmente, la volta nuragica (tanto che anche i moderni lo chiamano appunto a tholos, cioè ad arco aggettante) e insieme lo spazio che viene chiuso con la costruzione.

Gli scrittori romani, invece, parlando dei nuraghi visti in Sardegna, in aderenza al loro spirito pratico e dominatore, li chiamano semplicemente castra, con evidente riferimento sia alla loro presunta destinazione che alla caratteristica costruttiva.

Nome esclusivamente nostrano, quindi, anche se la cosa, cioè la costruzione che esso indica, è del tipo cosiddetto megalitico (cioè fatta con grandi massi) e comune ad altre regioni che si affacciano sul Mediterraneo (come quelle famose di Creta), ma in uso un po' dappertutto (ed è ovvio) e perfino nelle lontane Americhe.

Altra caratteristica del nome è che esso è composto di due parti distinte, di due elementi, che sono però di provenienza del tutto diversa. Fenomeno che lascia, lascia soprattutto me, che poco mi intendo di certe cose, perplesso. Il suffisso ghe è, infatti, di origine latina, ed è abbastanza diffuso in sardo. E deriva a sua volta da due noti suffissi latini - (c) ulum e - cem: suffissi che genericamente indicavano destinazione di una certa cosa. Umbraghe, ad esempio, proviene dal latino umbraculum, e indica, come in latino, il sito destinato al meriggiare del bestiame, a dare ombra ad esso, sia per idoneità naturale, come una pianta fronzuta, un angolo riparato dal sole, sia perché ricavato con mezzi artificiali, come le palafitte coperte da frascame, così usate nei Campidani. Di umbraghe, ovviamente, il suffisso è - culum. Infurraghe, invece, il suffisso è - cem; per cui fornacem latino e furraghe sardo indicano la fornace ove si cuoce la pietra calcarea per ricavarne la calce, e anche i forni di cottura degli oggetti di argilla. E così di nuraghe il suffisso è - cem, cioè latino.

Ma il prefisso, la radicale del nome, cioè nur, non è affatto latino. Esso è anzi tipicamente protosardo, anteriore di certo alla lingua latina, quale è venuta formandosi sui fatali colli del basso Tevere ove sorse Roma. In Sardegna abbiamo numerosi toponimi che hanno la stessa radice nur di nuraghe: Nurri, Nurra, Noragugume, Nuràminis, Nurallao, Nurachi, Nureci, Nora (i ruderi), Nuragus (di cui non si sa se abbia dato il nome, o lo abbia preso, alla vite così diffusa in Sardegna: appunto nuragus, e che dà ottimo vino).

(Tra parentesi: da rilevare a titolo di curiosità, che il grappolo dell'uva nuragus ha una strana ma evidente rassomiglianza con la forma del nuraghe: non è spargolo e neppure alato, gli acini non sono fitti, ma semplicemente appoggiati e accostati l'uno sull'altro; talché, grosso modo, appaiono disposti come le pietre di questa costruzione; e il grappolo assume la forma propria del nuraghe, di tronco di cono, con la base verso il picciolo: chiusa la parentesi).

Questo prefisso protosardo è però diffuso in tutto il bacino dei Mediterraneo, o nella stessa forma nostrana di nur o in quelle altre similari e di identico significato di nor, nul, nol ecc. Or pare certo che nur indicasse «pietre, massi, scogliere pietrose» ecc., tutto ciò insomma che con questo elemento naturale così diffuso aveva attinenza e da esso assumeva una particolare configurazione. Ed ecco perché è da pensare che i nostri mura, mureddina, muredina ecc., di cui abbiamo parlato, provengano dalla radicale in argomento. Ed ecco perché, infine, il nostro pensiero si è indirizzato da mura a nuraghe. E dei resto il Flecchia, che dei nuraghi si è occupato, ne fa derivare il nome proprio da murus.

Fatto si è che ormai può considerarsi pacifico fra gli studiosi dell'argomento che la parola nuraghe abbia avuto origine, sia partita, cioè, dal prefisso nur nel suo significato di «pietrame»; vorrebbe dire, in sostanza, «Cosa, costruzione» fatta di pietre.

Resta da spiegare come e perché il termine abbia assunto tale forma, appoggiando cioè a un prefisso protosardo come nur un suffisso tipicamente latino come ghe; posto che sarebbe da pensare che esso fosse completo e chiuso prima ancora che i Romani avessero posto stabile dimora in Sardegna ed esercitato la loro influenza anche nel campo della parlata locale. Non sarebbe stato necessario, in altre parole, valersi di una desinenza latina per indicare una cosa già a noi familiare da secoli. Che anzi, a quanto i più affermano, e soprattutto il Lilliu, anche se non con assoluta certezza, i Sardi stessi avevano edificato con le loro mani. La prima cosa che l'uomo fa quando compie un'azione, concepisce un'idea, fa un'opera, è quella di dargli un nome, se già non l'aveva.

Va detto subito che è sommamente difficile dare una spiegazione soddisfacente al fenomeno, dovendosi spingere lo sguardo a ritroso nella notte dei tempi, e parlare di cose e di fenomeni oscuri e incerti di per sé.

Noi ci azzarderemo ad esporne una, sulla cui esattezza e fondatezza non siamo, per altro, disposti a giurare, ma che ci pare molto probabile. E per darla dobbiamo risalire a fonti tutt'altro che certe, ma tradizionali, già raccolte e, si capisce facilmente, elaborate, secondo il gusto di ciascuno e con spirito imaginifico, dagli scrittori antichi quando han trattato di questa isola posta nel mezzo dei Mediterraneo e che i Greci chiamavano Sandaliotis (o Ichnusa), per la forma di pianta di piede che essi vi avevano trovato. E precisamente alle più remote e, in parte almeno, mitiche colonie arrivate nei nostri lidi.

Che esse siano state molte e di varia provenienza non può porsi in dubbio, se non altro per la commissione di razze diverse che han poi composto la popolazione sarda, e delle quali vi sono ancora evidenti tracce. Ma fermiamo l'attenzione sulle più remote e incerte, tramandateci dagli scrittori che le avevano raccolte da tradizioni orali: quella di Sardus e quella di Nora.

Del primo si scrisse che egli aveva portato in Sardegna una colonia di Libici e aveva poco a poco occupata tutta l'isola. Talché sarebbe stato, e venne detto, Sardus pater (Sardo-patore) come si legge nella medaglia coniata con la sua presunta effigie dal console Azio Balbo. E avrebbe poi dato il nome all'Isola: lo scrittore latino del IV secolo d.C. Solino dice appunto che, essendo arrivato nell'Isola dalla Libia, «a Sardo nomen terrae datum». Ma: vi è un ma, a quanto dice la tradizione, che occorre porre in evidenza.

In una iscrizione fenicia trovata presso Pula (che a sua volta è vicina alle vestigia di Nora) pare si legga di un Sardus Pater che sarebbe partito da Tartesso, città spagnola al di là, si noti bene, delle Colonne d'Ercole, e quindi già nell'Atiantico, e sarebbe pervenuto a Nora.

Un'altra colonia, pur essa del tutto incerta, ma di ferma tradizione è quella fondata, secondo Pausania, da Norace nel punto ove, dal suo, prese nome la città, e cioè a Nora. E Solino dice ancora, nello stesso punto, che «a Norace Norae oppido nomen datum». Che cioè da Norace fu dato alla città il nome di Nora. Ma contrariamente a quanto si leggerebbe nella iscrizione fenicia di Pula, Solino afferma che Norace sarebbe partito da Tartesso, e non già Sardus, proveniente invece dalla Libia.

Come si vede, vi è una forte discordanza,fra le due fonti, già rilevata da scrittori moderni. Talché taluno ha cercato, e secondo me giustamente, di elirninarla, pensando che chi sarebbe venuto da Tartesso si chìamasse Sardus, e che avesse fissato la sede della colonia nel punto di sbarco ove sorse e si sviluppò, poi, Nora, che per qualche secolo fu la città più importante dell'Isola. In altre parole: quella di Norace sarebbe una traduzione alterata di quella della colonia condotta dal fenicio Sardus dalla Spagna. La confusione sarebbe stata determinata, e questo è quanto interessa alla nostra tesi, dal fatto che Sardus sarebbe sbarcato con i suoi Iberi in un punto chiamato dai sardi aborigeni appunto Nora. In altre parole ancora, non sarebbe stato il mitico Norace a dare il nome al punto del suo approdo, ma, al contrario, il nome di questo punto di approdo, già preesistente, e cioè Nora, avrebbe dato il nome a Sardus.

Né questo nome sarebbe fuor di luogo, perché Nora è posta a cavallo, direi, di un piccolo promontorio roccioso, che si spinge in mare circa da nord a sud, per cui vengono a formarsi due piccole rade, ai lati del romontorio; sito particolarmente felice per i natanti di allora, perché consentiva di rifugiarsi, in pochissimo tempo, nell'una o nell'altra rada, a seconda dei venti che spiravano, protette come erano da quelli di nord, di est e di ovest.

Ora, tirando le somme, può farsi l'ipotesi, che non ci sembra infondata, che gli isolani, nel periodo romano, e già impregnati dello spirito della lingua dei nuovi dominatori, abbiano preso il suffisso latino di -cem dall'accusatívo di Norax: Noracem) e lo abbiano aggiunto alla radice locale di Nur o Nor formando il nostro vocabolo nuraghe, a indicare, in modo particolare (e per differenziarle dal termine generico), le costruzioni nuragiche.


La Torre. Dopo il nome, ovviamente, la cosa. In che consiste il nuraghe? Spiegare, soprattutto a noi Sardi, che cosa siano i nuraghi, apparirebbe cosa del tutto superflua. Non ve ne è uno, si può dire, che non ne abbia visto qualcuno, almeno in... cartolina illustrata. Ogni pastorello, ogni ragazzotto di campagna ne ha scalato le mura o è penetrato nel vano interno, magari in cerca di un tesoro sognato, o a nascondere qualche capo rubato. Chi si è appena mosso da casa, ha lasciato le vie cittadine e ha percorso con qualsiasi mezzo le nostre strade, ferrate o no, ha avuto occasione di vederne taluno profilare la sua inconfondibile mole sulla cìma di qualche altura. Eppure, non riteniamo vana la pena di parlare di questa cosa che è il nuraghe; soprattutto perché nella generalità dei casi e deì sardi l'osservazione di esso si è fermata, come dire, alla superficie, alla apparenza esteriore.

E cominciamo con due osservazioni che parrebbero, e non sono, lapalissiane.

1) Non vi sono, si può dire, due soli nuraghi che siano del tutto identici fra di loro, come ad esempio le monete scodellate da uno stesso conio, o le pagine stampate con lo stesso stampo tipografico. Ogni nuraghe ha una sua nota che lo caratterizza, un suo particolare che lo individua, lo distingue dagli altri: sarà un particolare costruttivo, o di struttura, di rifinitura, magari; di qualche cosa di accessorio, di conformazione esterna o del vano interno ecc.; ma ognuno, quasi, si personalizza. E la cosa si spiega agevolmente e si comprende facilmente. Basta riflettere che furono edificati in un largo periodo di tempo, secoli addirittura, e sono disseminati, più o meno fittamente, in tutta la superficie dell'Isola. E a costruirli furono, se il termine non appaia esagerato, architetti diversi, ognuno dei quali vi ha lasciato una sua impronta personale, del suo gusto piu o meno raffinato di costruttore, e ha dovuto naturalmente tener conto del sito ove sorgeva, del materiale costruttivo di cui disponeva e di masse umane diverse.

2) Pur essendo diversi l'uno dall'altro, i nuraghi hanno tuttavia in comune tutti gli elementi essenziali di una costruzione di quella mole coi quali i nuraghi furono elevati, che li unificano nella totalità del loro insieme; e nel loro insieme li differenziano da ogni altra forma edilizia di qualunque parte del mondo: pur ottenuta con lo stesso materiale e avente lo stesso tipo (megalitico) di costruzione.



Nuraghe Burghidu (Ozieri)Credo che sia questo fatto, che si potrebbe dire della uguaglianza nella disuguaglianza, della difformità e diversità nella uniformità, a render così difficile, quasi impossibile, una suddivisione organica, una ripartizione o classificazione in categorie dei nuraghi sardi. E chi lo ha tentato non ha potuto riuscire chiaro e convincente nelle sue classificazioni. Così il padre Angius, che circa 150 anni fa divise i nuraghi in quattro categorie: nuraghi semplici, nuraghi aggregati, nuraghi riuniti e nuraghi recinti o recintati. I primi, scrisse, sono infinitamente i piú numerosi; ma già il Lamarmora osservava nello stesso torno di tempo, e giustamente, che molti dei cosiddetti nuraghi semplici appaiono tali oggi, o perché sono andati distrutti quelli esistenti al loro fianco, ma dei quali pur restano o restavano allora evidenti tracce, o perché il padre Angius non ha tenuto conto dei recinti che recingevano in parte o totalmente il nuraghe centrale semplice.

Il Lilliu ha tentato ugualmente una suddivisione dei nuraghi, come risultato di uno studio durato decenni, fatto con grandissimo amore e infinita pazienza. Del quale sono frutto le sue due pubblicazioni recentissime, veri monumenti anche dal punto di vista tipografico, talmente fondamentali che chiunque vorrà nel futuro trattare dell'argomento non potra, a mio giudizio, che prendere le mosse da esse, e tenerle nel massimo conto. E lo stesso prof. Lilliu, da onesto studioso, si augura che la questione venga ripresa, conscio, come egli si dichiara, di non aver risolto tutti i dubbi, chiarito tutti i punti di questo allettante argomento. Anzi si può dire che il Lilliu fa almeno due classificazioni dei nuraghi.

Li distingue innanzi tutto in nuraghi del tipo classico, a tholos, immensamente piú numerosi, e in nuraghi a galleria o a corridoio: ma le poche decine di nuraghi di questa categoria, che il Lilliu è riuscito a reperire, e tuttora sussistenti, non giustificherebbero, a nostro sommesso parere, la suddivisione, la formazione di una categoria diversa. Ma, soprattutto, rende dubbia tale catalogazione fra i nuraghi, sia pure come cateoria a sé di codesti nuraghi a corrìdoio, il fatto che... nuraghi non sono.

Nel senso che non possono esser accostati, e tanto meno accomunati ai nuraghi tipici o classici, dei quali non hanno né la forma né la struttura, se non come... fratelli bastardi, spuri.

Esistono anche, a detta sempre del Lilliu, nuraghi dei tipo misto: a tholos, cioè, e a corridoio, e ne dà alcuni esempi. Ma anche in questi la parte che vien detta a corridoio apparirebbe come costruzione aggiuntiva, sussidiaria della principale, una specie di dipendenza fatta per uno scopo a noi incerto.

Anche se non può dirsi una vera e propria suddivisione per categorie distinte, piú interessante e accettabile, perché legata a particolarità costruttive di grande rilievo, è l'altra suddivisione, che lo stesso Lilliu fa in nuraghi semplici; nuraghi plurimi e complessi: trilobati, quadrilobati, e polilobati (i quali ultimi talvolta assumono «proporzioni gigantesche e poderose» - sono parole sue). Aggettivi certamente piú che giustificati, a chi ha potuto esaminare, anche come semplice curioso, l'imponenza e la grandiosità dei complessi nuragici di Lugherras, presso Paulilàtino, di Nuraghe de s'Orku presso Domusnovas, e soprattutto del Nuraghe su Nurazi (quasi per antonomasia, certo inconscia) di Barùmini, taluno dei quali raggiunge il diametro di ben 70 metri.

Le Date. Una interessantissima suddivisone, direi temporale, dei nuraghi fa il Lilliu con riferimento alle epoche ipotizzate della cosiddetta civiltà nuragica. E così distingue tre periodi:

a) periodo arcaico, che poi suddivide, con ragionato motivo, in Arcaico 1 (circa dal 1500 al 1200 a.C.) e Arcaico Il (dal 1200 circa al 1000 a. C.);

b) periodo apogeico o medio (dal 1000 al 500 circa a.C.), che sarebbe quello del massimo splendore, durante ìl quale la costruzione dei nuraghi avrebbe raggiunto, appunto, l'apogeo;

c) periodo della decadenza o addirittura dell'estinzione della civiltà nuragica.



Grosso modo nel 1 periodo arcaico avviene la costruzione dei nuraghi semplici con camera a tholos, quelli, direbbesi, di tipo classico; nel Il periodo arcaico già si manifesta una certa evoluzione nella costruzione della torre a tholos, che talvolta assume una forma elittica.

Il periodo apogeico corrisponderebbe, appunto, alla fase di maggior splendore della civiltà nuragica, durante la quale vengono costruiti soprattutto nuraghi plurimi o complessi (pochi, in verità); ma in ispecie si costruiscono quelle costruzioni aggiuntive, addizioni, così evidenti anche oggi, a immediato ridosso del nuraghe centrale o a distanza piú o meno grande, in modo però che tutto l'insieme veniva a formare davvero un complesso formidabile per potenza, un centro di vita impressionante. Il III periodo, poi, sarebbe... superfluo, posto che in esso si ha l'abbandono della costruzione dei nuraghi classici o tipici, e la costruzione a corridoio.

La prima classificazione in nuraghi semplici, plurimi e complessi pare a noi la piú accettabile. Quella relativa ai periodi testé riportata e in parte esaminata ci lascia, invece, perplessi e dubbiosi. Non è certo nostro intendimento fare una recensione critica dell'opera monumentale del Liiliu: essa si raccomanda da sé. Ma ci sarà consentito di esprimere qualche sommessa osservazione. E così diciamo che questa suddivisione in periodi, ci appare, come dire?, un po' scolastica, e quasi dettata da motivi marginali, piú di armonia che sostanziali di merito. Soprattutto vogliamo dire questo. Come divisione temporale in periodi o in epoche alle quali si possa riferire la costruzione dei nuraghi, nulla da osservare e da dire: può esser accettata a occhi chiusi, perché basata su dati obiettivi di una certa fondatezza. Non ci convince, invece, come dire?, l'aggettivazione qualificativa adoperata dall'Autore: precisamente l'aggettivo arcaico attribuito al primo periodo e quello di apogeico dato al secondo. E ci spieghiamo subito. L'aggettivo «arcaico» fa pensare a un tipo di costruzione ancora grezzo e rozzo, tanto piú in quanto a questo periodo si contrappone, quasi, l'aggettivo «apogeico» dato al successivo.

Invero sembra un fatto singolare, ma certo è significativo, che i numerosissimi nuraghi semplici a torre, come quello di Orolío (presso Silanus, che è tanto bello da aver indotto il Lilliu a porlo sulla copertina del suo primo volume), di Nuraghe de s'Orku di Sarroch, di Titirriòla nella montagna di Bolotana, quello centrale di Barùmini ecc., che appartengono tutti al primo periodo cosiddetto «arcaico», non si manifestano come opera di uno stadio primitivo e ancora grossolano di costruzione, una specie di tentativo, ma sono invece opere che appaiono perfettamente compiute e finite, secondo un disegno architettonico già sperimentato e maturo. Gli architetti e costruttori o, piú probabilmente, i costruttori-architetti dei primi nuraghi sapevano perfettamente quello che volevano costruire, e come lo volevano costruire, e con quali mezzi e strumenti, talché può dirsi che questi nuraghi semplici rappresentino il meglio delle costruzioni nuragiche, e che i costruttori abbiano raggiunto l'apogeo proprio nel tipo di costruzione di cui trattiamo.

Al contrario, le costruzioni attribuite dal Lilliu al periodo che egli chiama apogeico, nulla aggiungono strutturalmente al nuraghe tipico primevo, del periodo cosiddetto arcaico; non mostrano alcuna novità costruttiva, salvo, si intende, una tecnica piú progredita, una perfezione maggiore, una migliore armonia di rapporti fra i vari elementi, come si palesa ad esempio nella torre a volta, a tholos, del nuraghe di Santu Antine di Torralba, che il Lilliu data circa all'anno 1000 a.C.

Ma anche sotto un altro riguardo non ci pare che si possa dare al periodo fra il 1000 ed il 500 la classifica di apogeico. Ne diamo subito il perché: anche se, forse, l'osservazione dovrebbe trovare migliore collocazione in altro punto di queste note. A che cosa servivano i nuraghi, quale funzione assolvevano? Or pare a noi poter dire che cotali opere (i nuraghi arcaici, cioè) erano dirette a consolidare nel tempo e nello spazio il predominio da parte di una popolazione dominante, e in espansione, su una popolazione dominata. Avevano cioè un carattere, un contenuto precipuamente ed eminentemente offensivo. Mentre le addizioni, gli inserti, i bastioni, i contrafforti, i camminamenti, le cortine ecc., giustamente dal Lilliu assegnati al periodo successivo, apogeico, appaiono dettati da una esigenza opposta: cioè da una necessità di difesa. Forse dalla comparsa in campo di altre popolazioni, indigene o straniere, come i Fenici, forse i Greci, i Cartaginesi, a contrastarne o a scuoterne il dominio, anche in combutta fra di loro. E anche dalla comparsa di mezzi bellici piú potenti ed efficaci, ad esempio l'ariete chrióforos, di costruzione cartaginese, strumento ossidionale che si palesò efficientissimo.

Or si può chiudere questa disgressione, forse troppo lunga, che spero però non sgradita e non inutile, con questa enunciazione: il popolo che ha eretto i nuraghi raggiunse la vetta della sua civiltà e potenza, l'apogeo, durante i secoli dei primi due periodi chiamati «arcaici». Nel periodo successivo, chiamato «apogeico», al contrario, cominciò a regredire, fino poi a scomparire del tutto, dissolto nella notte dei tempi, senza lasciare altra traccia di sé che queste ciclopiche costruzioni, queste vestigia di un tempo certo di potenza e forse anche di splendore, rimasto purtroppo ignoto perfino ai popoli coevi.