Scritto da: |=Morpheus=| 07/03/2006 16.31
GAGGIO ADELAIDE CRISTINA detta Haidi Giuliani
"Sono nata a Sant'Ambrogio di Valpolicella, in provincia di Verona nel 1944. La mia storia professionale è segnata dall'insegnamento elementare, dagli anni delle lotte per ottenere il tempo pieno. Sono molto legata al movimento che ha sfilato per le vie di Genova, alla sua generazione, ai suoi fatti. Mi sono decisa ad accogliere l'invito di candidarmi nelle liste di Rifondazione Comunista/Sinistra Europea, per affrontare meglio i problemi in cui mi dibatto, a cominciare da quanto accaduto a luglio 2001, durante il G8, che è solo la punta dell'iceberg di una più generale repressione del dissenso. Ma sarà mia premura occuparmi delle condizioni di vita nelle carceri, del superamento dei cpt, più in generale del pieno reintegro dei diritti democratici e di cittadinanza".
NON SAPREI RISPONDERTI ... IO.
MA SE VUOI SAPERNE DI PIU' FORSE ...
... REPRESSIONE DEL DISSENSO ... MMH ... ASSOMIGLIA UN PO' AL PORGERE L'ALTRA GUANCIA.
BEH ORA SI SA' CHE SE VUOI DISSENTIRE A CASA SUA LO POTRAI FARE LIBERAMENTE ANCHE SPACCANDO TUTTO ED AGGREDENDO CHI VORRAI.
BASTA CHE SIA DISSENSO PERO'!
Questa te la quoto alla grande
ed aggiungo:
Pubblichiamo stralci della postfazione scritta da di Haidi Gaggio Giuliani al libro “2001-2006 Segreti e bugie di Stato” di Gigi Malabarba. Il libro, da oggi, è in edicola insieme a “Liberazione” al prezzo di 4 euro e 50
Haidi Gaggio Giuliani
Sono andata di nascosto alla mia prima manifestazione: era per un ragazzo ucciso, schiacciato contro un muro da una camionetta della Celere di Padova; si chiamava Giovanni Ardizzone.Qualche anno dopo, come attivista del Pci, avrei manifestato in favore del sindacato di Polizia, per quei “poliziotti sfruttati” di pasoliniana memoria, in favore della democratizzazione dei corpi militari usati in ordine pubblico. Mi è capitato tante e tante volte, negli anni Sessanta e Settanta, di trovarmi faccia a faccia con le divise, e non si era mai dalla stessa parte, anzi… Tuttavia mi piace ricordare un episodio: eravamo andate, come donne della sezione di zona, a sostenere lo sciopero delle commesse della Standa, e stavamo tutte a braccetto a fare cordone davanti alle vetrine dell’ingresso; ai fatidici tre squilli di tromba, che precedevano la carica, alcune hanno avuto paura, hanno chiuso gli occhi e infilato la testa tra le spalle, qualcuna è scoppiata a piangere, ma nessuna ha lasciato la stretta. La carica non è arrivata: i manganelli penzolavano inerti nelle mani degli uomini che avrebbero dovuto aggredirci. L’ometto con la fascia tricolore li fulminava con minacce sprezzanti ma niente da fare, quelli non si muovevano, non se la sentivano proprio di sfondare la fragile barriera tremante di figlie madri sorelle di fronte a loro. Ricordo che a quel punto le lagrime agli occhi sono venute a tutte, al pensiero di quello che avrebbero subito quegli uomini. Uomini, appunto.
Mi è capitato raramente, in seguito, di trovare un uomo o una donna dentro a una divisa. E ho imparato a non amarle, le divise, da quelle tronfie di medaglie ai grembiulini di scuola. […] Alle grandi battaglie ideali per la conquista dei diritti era seguita la stagione della lotta armata, che aveva lasciato una grande confusione in larga parte dell’opinione pubblica; diciamo che c’era chi aveva interesse a fomentare quella confusione, a mescolare le cose: le Brigate rosse con la strategia della tensione; le proteste, gli scioperi, gli espropri proletari e le occupazioni con il terrorismo. Non c’è da stupirsi se oggi qualcuno grida al “pericolo comunista”, nel nostro Paese, se c’è chi tenta perfino di mettere insieme gli uomini e le donne che hanno combattuto nella Resistenza con i repubblichini di Salò: quando si comincia a imbrogliare la storia si imbocca una china pericolosa. La democrazia è un ingranaggio delicato, basta distrarsi un momento, lasciare che si guasti qualcosa, ed ecco che si torna indietro nelle conquiste sociali, nella coscienza collettiva. E la strada si fa terribilmente scivolosa. In quegli anni ci siamo distratti in molti. Ci siamo risvegliati a Genova.
Certamente è difficile capire, dal basso, le cose che ci racconta Gigi Malabarba: le divise che incontri nella vita non sono le alte uniformi del potere. Leggendo ti rendi conto della distanza enorme che separa i vertici dalla base, le alte sfere del comando da noi che offriamo loro legittimità senza un controllo diretto. Leggendo pensi che per scriverle, quelle cose, bisogna essere coraggiosi; e subito dopo ti interroghi sul fatto inquietante che ci voglia coraggio per dire le cose come stanno. […]
La guerra è violenza che genera violenza, è terra avvelenata che per molti decenni continua ad avvelenare; è un ragazzo, uno come tanti, di quelli che puoi incontrare con gli amici al bar o fermo ad un semaforo sul suo motorino, che grida eccitato al collega “Annichiliscilo! ”. La guerra è ricerca incessante di dominio che la fine dell’equilibrio basato sul terrore nucleare ha reso ancora più esplicita, sviluppa appetiti feroci. Ed alimenta quel ginepraio di cui ci parla Malabarba.
Il predominio statunitense, con la collocazione degli uomini peggiori nei posti peggiori (per la democrazia, si intende), impone un modello, una complicità, nei gangli più delicati dell’organizzazione statale dei singoli paesi: servizi, strutture di sicurezza e di intelligence. Malabarba ricorda Genova, ricorda Calipari, come esempi di questa brutale egemonia. Ma non sottovaluta le responsabilità del governo, nostre, nazionali. Ed è lì che occorre concentrare la nostra attenzione e la nostra iniziativa; fare pulizia nel giardino di casa aiuta l’ambiente di tutto il Pianeta. Informazione, vigilanza, creazione e allargamento del consenso intorno a progetti di rilancio della democratizzazione delle strutture, dalla polizia alla guardia di finanza, ai corpi militari, ai servizi. Non perdere nessuna occasione per farlo. A cominciare dai programmi con i quali l’opposizione si presenta nella già avviata campagna elettorale. La commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti di Napoli e di Genova del 2001. Una commissione di inchiesta sull’uccisione di Calipari. Gli identificativi per gli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico.
La fine dell’impunità per i comportamenti infami sempre più frequenti da parte di carabinieri, poliziotti, guardie penitenziarie. L’individuazione dei responsabili anche per ridare credibilità a settori tanto delicati dello Stato. E un’azione generale di defascistizzazione. I canti inneggianti a Pinochet e al fascismo che abbiamo sentito intonare alla Foce di Genova la sera del 20 luglio 2001, il simbolo del fascio littorio della repubblica di Salò collocato nel bianco del tricolore dietro la scrivania del comando del corpo di spedizione a Nassiriya, solo per fare qualche esempio, non possono essere più sottovalutati o ignorati. Ne va, appunto, delle garanzie democratiche del nostro Paese.
Liberazione 04-03-2006
Insomma la divisa come elemento di spersonalizzazione, quindi, dagli pure addosso tanto dentro raramente trovi un uomo od una donna.
Quanto mi piacerebbe chiederle cosa o chi ritiene di trovare sotto un passamontagna, anche se si trasformerebbe in una domanda retorica di cui saprei già la scontata risposta.
Infine l'atavica sindrome da Fort Apache, che colpisce me come quasi tutte le divise, mi porta a sottolineare la parola INFAME utilizzata dalla signora (le parole sono pietre, ama ripetere il buon Ostro), bell'esempio di democrazia a senso unico, un buon viatico per l'entrata in Parlamento.......auguri.
----------------------------------------
Hey oh rock and roll, deliver me from nothing (Bruce Springsteen)
"Collè, capovolgi il mezzo e portalo all'incomincio della strada" (Anonimo collega)