Leoncino

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psitta
00sabato 18 agosto 2007 17:38
Riceviamo dal Dott.Alamanno capecchi e volentieri pubblichiamo
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Alamanno Capecchi
« LEONCINO »
Fermo sul suo trespolo lo " Storno fagiano " guarda fuori dalla finestra i passeri che vengono al tetto o si inseguono chiassosi nelle prime risse d'amore. L'ho raggiunto nella stanza all'ultimo piano, incrocio tra soffitta e mansarda, che è il suo regno. Il vento freddo di questa fine di marzo fa stormire gli abeti e sembra eccitarlo. E' irrequieto, a tratti sbircia al di là dei vetri i passeri che continuano a volare vicinissimi e i suoi occhi gialli si fanno più luminosi. Ero venuto su con il proposito di liberarlo dopo mesi di prigionia forzata per timore dei cacciatori. Ma all'ultimo momento ho paura e le finestre restano chiuse. Aspetterò ancora un po' di tempo fino a quando sarò sicuro che anche l'ultimo fucile, ben pulito e ingrassato, riposa in attesa del nuovo anno venatorio. Non vorrei perderlo;esso, così domestico, ma libero e " naturale ", così amico ma " gatto ", così affezionato ma indipendente, che non mi fa sentire in colpa per averlo forgiato a " misura di uomo ".
Vi è in me una contraddizione di fondo. Io che provo e ho sempre provato un senso di disagio di fronte a scimmie in cilindro e marsina, a cagnolini acconciati all'ultima moda, a pappagalli e gracule troppo antropomorfizzati. Io che sogno enormi voliere dove gli uccelli possano vivere secondo la loro natura di animali liberi, non ho saputo resistere, a volte, al fascino di un rapporto quasi conspecifico che solo alcuni di loro instaurano se tolti ai genitori appena possibile. Questi poveri esserini indifesi che frequentemente male si adattano alle ristrettezze di una gabbia, che vogliono vivere con noi, spesso eludono la sorveglianza, escono fuori di casa e fanno una brutta fine lasciandoci un po' di bocca amara.
Dalla memoria affiorano ricordi lontani. Rivedo una Averla piccola nelle fauci di un famelico gatto randagio; un'altra Averla, cenerina questa volta, miseramente schiacciata tra i battenti di una porta, nella fretta di impedirle di seguirmi, da una stanza all'altra, come un'ombra; e poi passeri, tanti passeri, compagni della mia infanzia e della mia giovinezza, quasi tutti, prima o poi, finiti miseramente. Fra i molti ricordi, in epoca più recente, quello di una Amadina testa rossa maschio così poco " uccello " e tanto " umano " che mai ne ho avuti di uguali.
Ed è di questa storia un po' triste che mi accingo a scrivere.
Nell'autunno del 1966 acquistai da un rivenditore pisano una coppia di Amadine a testa rossa che all'inizio della primavera dell'anno successivo alloggiai in voliera esterna. Sul finire del mese di giugno occuparono una cassetta nido per Pappagallini ondulati, già predisposta per la cova, dove la femmina depose cinque uova, tutte feconde, che schiusero.
Allevarono esclusivamente con insetti e in particolare con larve di formica delle quali erano ghiottissime. La loro predilezione per questo particolare cibo era tale che quando si accorsero che potevo agevolarle rimuovendo il fondo della voliera con una zappa, cominciarono a starmi letteralmente tra i piedi per essere pronte a prenderle, appena in superficie. Per una settimana, mattina e pomeriggio sarchiai il terreno per favorire la ricerca del cibo, poi fui costretto ad assentarmi per alcuni giorni. Al ritorno guardai nel nido: tre pulli erano morti e già in avanzato stato di putrefazione, due ancora vivi,completamente nudi, e con il gozzo vuoto. I genitori, intanto, continuavano disperatamente a cercare, tra le zolle rimosse, un alimento ormai introvabile. Fidando nella buona stella e nel caldo torrido di quei giorni decisi di tentarne l'allevamento allo stecco: mi andò bene. Nutriti con un pastoncino del commercio per insettivori a becco fine e qualche larva della farina crebbero sani e vispi e si impiumarono perfetta¬mente. Precocemente a tutti e due comparve il rosso sulla testa.
Il rapporto che questi maschi instaurarono con me e con mia moglie fu però netta¬mente diverso. Sebbene fossero stati trattati alla stessa maniera, uno, che poi regalai, si rivelò ottuso, distaccato, antipatico (uso questa terminologia solo per dare un'idea del " carattere " secondo la nostra ottica; so benissimo che sarebbe assurdo e ridicolo pretendere di applicarla seriamente a degli animali), l'altro una specie di piccolo cane a forma di uccellino. La sera, a volte, rimaneva per lungo tempo appollaiato sul bracciolo della poltrona o sulle nostre gambe e sembrava guardare con noi la televisione. Quando si stancava disturbato dalla luce del video, o volava alla gabbia dimostrando chiaramente il desiderio di essere portato in un luogo buio per dormire, o si infilava in una tasca della mia giacca, dove rimaneva fino a quando, allungata una mano, non lo prelevavo per trasferirlo nel suo consueto alloggio. In alcuni giorni, ma specialmente nel periodo del richiamo sessuale, era una vera peste. La penna che nello scrivere si muoveva con la mano, le stesse dita e gli orecchi erano per lui altrettanti avversari da aggredire, anzi che aggrediva con grande determinazione. Allora quel suo beccuccio robusto stringeva, colpiva e tentava di lacerare. Non aveva nessun timore e qualsiasi cosa facessi per impaurirlo e tenerlo lontano si rivelò sempre inutile.
Lo ghermivo con falsa cattiveria nell'atto di stritolarlo, lo facevo roteare vertiginosamente nel pugno chiuso, lo buttavo letteralmente via, lo avvolgevo in un fazzoletto che annodavo per gli angoli in modo da formare un piccolo fagottino, niente da fare, appena libero riprendeva imperterrito la tenzone. Il suo coraggio e la sua temerarietà erano tali che se mimavo con la mano una " zampata " invece di fuggire mi aggrediva rimanendo, a volte, per un attimo, a mezz'aria attaccato alla punta delle dita come in un fumetto di Walt Disney. Quando non ne potevo più lo rinchiudevo in gabbia. Per questo comportamento battagliero, durante il quale alzava le piume della testa e del collo formando una sorta di criniera, gli mettemmo nome " Leoncino ": piccolo leone.
Durante la buona stagione lo tenevo spesso in voliera dove, forse per l'ampio spazio a disposizione, andava d'accordo anche con i più piccoli Estrildidi mantenendo però sempre un comportamento tra l'isolato e il distaccato. Quando mi vedeva si attaccava alla rete tentando di uscire. Se entravo, subito mi volava su una spalla e in più di una occasione riuscì ad evadere al momento di aprire la porta. Per due volte si allontanò e non fu capace di ritornare; me lo riportarono dei vicini nelle cui case si era introdotto. Fu questa mancanza di orientamento la causa della sua triste fine.
Nell'estate del 1970 dovetti assentarmi per una quindicina di giorni e affidai, come al solito, a mia moglie la cura dell'allevamento. " Leoncino " fu alloggiato in voliera ma un giorno la seguì, al momento della somministrazione del cibo, per quella specie di " odio-amore " che lo univa a noi. Purtroppo non se ne accorse e la conseguenza fu che al mio ritorno riposava ai piedi di un roseto, sepolto dalle mani pietose di mia figlia. Era avvenuto questo: accanto alla casa, separata da una corte, vi è una Cappella gentilizia, un tempo sepolcreto di famiglia e dal 1847 luogo di culto aperto al pubblico. Là fu trovato dalla sagrestana, la " tuttofare " Rosaria, sulla tomba di un avo che aveva avuto il mio stesso nome.
Immagine cara a un romanticismo decadente quella di un animaluccio intelligente al punto di leggere un'epigrafe funeraria, ultrasensibile da morire di dolore al pensiero che l'amico scomparso giaccia morto lì sotto. Molto più realisticamente, introdottosi nella chiesa durante un riordino vi era rimasto chiuso per giorni poiché la Messa veniva celebrata, come attualmente, una volta la settimana. Affamato si era spostato sul pavimento, tra le tombe, in cerca di cibo e di acqua fino a morire, per caso, proprio in quel punto.
Tutto chiaro, logico, razionale. Però, disse mia moglie, quando la Rosaria mi ha chiamato e l'ho veduto immobile, la testa reclinata su di un lato, con le ali semiaperte come in un ultimo abbraccio nel punto preciso dove è scritto: « Quì giace il dottor Alamanno Capecchi... » ti giuro che mi ha fatto un certo effetto.

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sarmand
00lunedì 20 agosto 2007 15:09
un bellisssimo racconto , veramente toccante .
... i misteri della natura , sicuramente ad analizzarli e razionalizzarli una spiegazione logica e scientifica si trova . ma però ... [SM=g27829] [SM=g27822]
psitta
00lunedì 20 agosto 2007 19:22
La Ghiandaia
La Ghiandaia.
di Alamanno Capecchi

Tra gli uccelli che sono stati testimoni di particolari momenti della mia vita, la Ghiandaia vi entra a pieno diritto.

È un episodio avvenuto tanti anni fa, durante la seconda guerra mondiale. In quel periodo la mia famiglia era sfollata in un cascinale, ospite di certi contadini parenti della tata. Una matti¬na mentre dall'alto di un pianoro, da dietro un filare di viti, in compagnia di un coetaneo, osservavo i Gruccioni volteggiare alti nel cielo, udii qualcuno cantare in lontananza. Guardai in basso: dalla stradina della chiesa veniva verso di noi uno strano corteo e ai lati vi erano uomini armati in montura: soldati tedeschi! Nessun dubbo: la solita "retata" per reclutare uomini da impiegare nella costruzione di ponti sull'Arno. La strada inerpicandosi sulla collina passava a pochi metri da dove eravamo e pensammo bene di allontanarci nascondendoci nel folto di alcuni alberi vicini e a ridosso di un pen¬dio che portava al bosco vero e proprio. Stavamo distesi tra i cespugli per non farci vedere, quando all'improvviso sentii un gran calpestio e rumori di foglie e di rami violentemente rimossi. Un attimo dopo un uomo in canottiera con gli occhi sbarrati dal terrore, correndo all'impazzata, ci scavalcò a pie pari e scomparve nel bosco sottostante: Quasi contemporaneamente raffiche di fucile mitragliatore mandarono in mille pezzi i rami sopra le nostre teste e due bombe a mano esplosero con grande fragore sollevando un nuvolo di detriti. Guardai intorno: l'amico era scomparso. Allora mi portai, carponi, sul ciglio e mi lasciai scivolare giù tra le sterpaglie e pian piano, con le gambe che non ne volevano sapere di camminare da quanto mi tremavano, pieno di graffi e di lividi, tornai a casa dove ritrovai il compagno di sventura. Dopo aver bevuto un bicchiere d'acqua a piccoli sorsi, una vera manna in caso di paura, dicevano i vecchi di prima, e essermi disinfettato alla meglio tornai sul luogo del fattaccio. Tra ce¬spugli semidivelti, foglie lacerate e rami troncati vidi a terra un nido di Ghiandaie: tre uova chiare rotte, un nidiaceo sventrato e uno vivo, seminascosto tra il muschio: lo presi e lo portai a casa. La massaia, la Vecchia Carruba, si dimostrò poco entusiasta del nuovo ospite per¬ché disse: "Quando è grande pole spregià i pucinini". (Quando sarà grande potrà uccidere i pulcini)
Riuscii a rassicurarla e me la fece tenere. Celestina, così chiamai la giovane Ghiandaia, crebbe bene e divenne estremamente affezionata; stava sempre con me, dormiva sulla spalliera di una seggiola accanto al mio letto e al mattino, se ritardavo ad aprire la finestra per farla uscire, ap¬pena vedeva attraverso le imposte che era giorno, cominciava ad emettere suoni aspri, prima piano poi sempre più forte, infine iniziava a svolazzare intorno alla mia testa e continuava fin tanto che non mi decidevo a accontentarla. Allora volava su un grosso noce lì vicino e vi rimaneva per ore. Intanto i Tedeschi si erano ritirati al di là dell'Arno ed erano arrivati gli Americani.
Tra questi ve ne era uno alto, magro, dinoccolato, grande bevitore, che non c'era giorno che non si presentasse con scatolette, caramelle, scarponi militari e chi più ne ha più ne metta e chiedesse in cambio del vino: "Paisan, vino vino.
Mamma, vino vino.
Capitano, vino vino".
Poi si sedeva sotto il porticato con il fiasco in mano e cominciava a bere. Ogni tanto toglieva dal fodero un corto pugnale e diceva: "Hitler chiiich; Mussolini chiiich; Pippo chiiich” e mimava il taglio della gola.

Non ho mai capito chi fosse Pippo, forse l'imperatore del Giappone.

Un giorno, mentre il soldato era seduto a terra con le spalle appoggiate al muro e l'immancabile fisco di vino in mano, la Ghiandaia sentendo la mia voce comparve all'improvviso e si andò a posare in cima ad un paletto di fronte a noi: lo faceva tutti i giorni alla stessa ora perché per istinto sapeva che per lei c'era sempre qualcosa di buono da mangiare. L'Americano, che l'aveva veduta tante volte posata sul mio braccio, senza una ragione, senza un perché prese il fucile sparò e l'uccise; poi lanciò il fiasco ancora mezzo pieno contro il muro e pronunciando parole per me in comprensibili ma che dal modo come le disse dovevano essere bestemmie, si allontanò barcollando verso l'accampamento.
Sono passati ormai tanti anni ma della giovane Ghiandaia, sbiadite e un po’ danneggiate dai tarli, conservo ancora in una scatoletta di metallo, nella stanza dei ricordi,
alcune: "pennine turchine vaghissime", come scrive l'Olina.

Alamanno Capecchi
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marcopeluso
00lunedì 20 agosto 2007 22:30
Che meraviglioso racconto, dolce e amaro, triste e bello come la vita stessa.
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