La Ghiandaia
La Ghiandaia.
di Alamanno Capecchi
Tra gli uccelli che sono stati testimoni di particolari momenti della mia vita, la Ghiandaia vi entra a pieno diritto.
È un episodio avvenuto tanti anni fa, durante la seconda guerra mondiale. In quel periodo la mia famiglia era sfollata in un cascinale, ospite di certi contadini parenti della tata. Una matti¬na mentre dall'alto di un pianoro, da dietro un filare di viti, in compagnia di un coetaneo, osservavo i Gruccioni volteggiare alti nel cielo, udii qualcuno cantare in lontananza. Guardai in basso: dalla stradina della chiesa veniva verso di noi uno strano corteo e ai lati vi erano uomini armati in montura: soldati tedeschi! Nessun dubbo: la solita "retata" per reclutare uomini da impiegare nella costruzione di ponti sull'Arno. La strada inerpicandosi sulla collina passava a pochi metri da dove eravamo e pensammo bene di allontanarci nascondendoci nel folto di alcuni alberi vicini e a ridosso di un pen¬dio che portava al bosco vero e proprio. Stavamo distesi tra i cespugli per non farci vedere, quando all'improvviso sentii un gran calpestio e rumori di foglie e di rami violentemente rimossi. Un attimo dopo un uomo in canottiera con gli occhi sbarrati dal terrore, correndo all'impazzata, ci scavalcò a pie pari e scomparve nel bosco sottostante: Quasi contemporaneamente raffiche di fucile mitragliatore mandarono in mille pezzi i rami sopra le nostre teste e due bombe a mano esplosero con grande fragore sollevando un nuvolo di detriti. Guardai intorno: l'amico era scomparso. Allora mi portai, carponi, sul ciglio e mi lasciai scivolare giù tra le sterpaglie e pian piano, con le gambe che non ne volevano sapere di camminare da quanto mi tremavano, pieno di graffi e di lividi, tornai a casa dove ritrovai il compagno di sventura. Dopo aver bevuto un bicchiere d'acqua a piccoli sorsi, una vera manna in caso di paura, dicevano i vecchi di prima, e essermi disinfettato alla meglio tornai sul luogo del fattaccio. Tra ce¬spugli semidivelti, foglie lacerate e rami troncati vidi a terra un nido di Ghiandaie: tre uova chiare rotte, un nidiaceo sventrato e uno vivo, seminascosto tra il muschio: lo presi e lo portai a casa. La massaia, la Vecchia Carruba, si dimostrò poco entusiasta del nuovo ospite per¬ché disse: "Quando è grande pole spregià i pucinini". (Quando sarà grande potrà uccidere i pulcini)
Riuscii a rassicurarla e me la fece tenere. Celestina, così chiamai la giovane Ghiandaia, crebbe bene e divenne estremamente affezionata; stava sempre con me, dormiva sulla spalliera di una seggiola accanto al mio letto e al mattino, se ritardavo ad aprire la finestra per farla uscire, ap¬pena vedeva attraverso le imposte che era giorno, cominciava ad emettere suoni aspri, prima piano poi sempre più forte, infine iniziava a svolazzare intorno alla mia testa e continuava fin tanto che non mi decidevo a accontentarla. Allora volava su un grosso noce lì vicino e vi rimaneva per ore. Intanto i Tedeschi si erano ritirati al di là dell'Arno ed erano arrivati gli Americani.
Tra questi ve ne era uno alto, magro, dinoccolato, grande bevitore, che non c'era giorno che non si presentasse con scatolette, caramelle, scarponi militari e chi più ne ha più ne metta e chiedesse in cambio del vino: "Paisan, vino vino.
Mamma, vino vino.
Capitano, vino vino".
Poi si sedeva sotto il porticato con il fiasco in mano e cominciava a bere. Ogni tanto toglieva dal fodero un corto pugnale e diceva: "Hitler chiiich; Mussolini chiiich; Pippo chiiich” e mimava il taglio della gola.
Non ho mai capito chi fosse Pippo, forse l'imperatore del Giappone.
Un giorno, mentre il soldato era seduto a terra con le spalle appoggiate al muro e l'immancabile fisco di vino in mano, la Ghiandaia sentendo la mia voce comparve all'improvviso e si andò a posare in cima ad un paletto di fronte a noi: lo faceva tutti i giorni alla stessa ora perché per istinto sapeva che per lei c'era sempre qualcosa di buono da mangiare. L'Americano, che l'aveva veduta tante volte posata sul mio braccio, senza una ragione, senza un perché prese il fucile sparò e l'uccise; poi lanciò il fiasco ancora mezzo pieno contro il muro e pronunciando parole per me in comprensibili ma che dal modo come le disse dovevano essere bestemmie, si allontanò barcollando verso l'accampamento.
Sono passati ormai tanti anni ma della giovane Ghiandaia, sbiadite e un po’ danneggiate dai tarli, conservo ancora in una scatoletta di metallo, nella stanza dei ricordi,
alcune: "pennine turchine vaghissime", come scrive l'Olina.
Alamanno Capecchi
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