E allora il discorso dovrebbe riguardare l'importanza e la natura delle prime confessioni cristiane, che vertevano sulla resurrezione di Gesù.
L'evento della strada di Damasco non fece altro che condurre a un esito imprevedibile, ma in qualche modo anche sanzionò, una esperienza che per Paolo era stata traumatica. Là si provocò un vero e proprio ribaltamento del suo convictional world. Comunque si voglia spiegare il fatto, il risultato è uno solo: colui che prima infieriva contro i discepoli di Gesù improvvisamente si trovò invece ad annunciare la sua signorìa (cfr. Atti degli apostoli, 9, 21. 28; Galati, 2, 23)!
È forse per questo capovolgimento, inaspettato e soprattutto documentato dalle fonti come per nessun altro dei primi testimoni di Gesù, che si pensò a una rifondazione del cristianesimo, naturalmente combinato con una originale operazione ermeneutica condotta poi personalmente da Paolo.
Ma ciò che importa notare in questa sede è che Paolo attesta ripetutamente nelle sue lettere una propria interessante dipendenza dalla fede delle prime comunità cristiane e dalla formulazione stessa di quella fede. Già per quanto riguarda alcuni lògia del Gesù terreno, Paolo è il primo scrittore a trasmettercene almeno qualcuno. Non sto qui a trattare la questione della conoscenza da parte sua delle tradizioni gesuane e in particolare dei detti riconducibili al Maestro galileo, eventualmente sotto forma di citazione o di riecheggiamento o di adattamento.
Benché le posizioni degli studiosi in materia siano molto diverse, una cosa è sicura: Paolo ha ricevuto l'eventuale materiale gesuano rintracciabile nelle sue lettere soltanto dalla tradizione viva delle prime comunità cristiane palestinesi, il contatto con le quali è perlomeno documentato dalla sua propria informazione di essere stato quindici giorni con Cefa a Gerusalemme, oltre che di avere visto là anche Giacomo fratello del Signore (cfr. Galati, 1, 18-19).
Ma, a parte i debiti verso le tradizioni gesuane, sono le medesime lettere paoline a permetterci di ricostruire, mediante citazioni, richiami e allusioni, la stessa fede cristiana delle origini post-pasquali, quale essa era confessata prima di lui. Sicché, proprio Paolo è praticamente l'unica fonte, o almeno la principale, che ci permette di risalire all'identità confessionale della Chiesa primitiva. A questo proposito, già alcuni anni fa si produssero alcuni studi importanti a opera di Vernon H. Neufeld e Klany Wengst, per non dire di Reinhart Deichgräber, che si preoccuparono di distinguere e catalogare le forme letterarie, nelle quali aveva preso corpo la più antica enunciazione della fede cristiana. In effetti, l'Apostolo documenta l'esistenza di confessioni/homologìe, acclamazioni e "inni" che quella fede esprimono, testimoniandola e perfino celebrandola nel canto. Non è mia intenzione dare qui l'elenco di questa documentazione e tantomeno analizzarla esegeticamente. Ritengo sufficiente rimandare ad alcune di queste forme e ai rispettivi passi epistolari.
Per quanto riguarda le confessioni di fede, altrimenti etichettate anche come "il credo" o kèrygma, la loro caratteristica è la proclamazione degli eventi salvifici incentrati sulla figura di Gesù Cristo. Ricordo solo due di queste formule: 1 Corinzi, 15, 3-5 ("Vi ho trasmesso ciò che anch'io ho ricevuto, che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e poi ai Dodici") e Romani, 1, 3b-4a ("nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito figlio di Dio in potere secondo lo Spirito di santità dalla risurrezione dei morti").
Esse convergono unicamente nella confessione della resurrezione di Gesù, ma per il resto si differenziano e comunque ognuna delle due presenta un proprio schema ermeneutico di base (rispettivamente quello del giusto sofferente e quello della intronizzazione regale). In più si potrebbero citare perlomeno Romani, 3, 25; 4, 25; 1 Corinzi, 8, 6; 2 Corinzi, 13, 4; 1 Tessalonicesi, 4, 14.
Quanto alle acclamazioni, esse sono incentrate sulla dichiarazione solenne di Gesù/Cristo come Kyrios. Molto più brevi delle homologhìe, esse con ogni probabilità non sono destinate all'esterno della comunità cristiana ma appartengono a momenti celebrativi-cultuali della sua vita interna. Tali sono le frasi che leggiamo in 1 Corinzi, 12, 3 ("Nessuno può dire "Signore Gesù", se non nello Spirito Santo"); Romani, 10, 9 ("Se confesserai con la bocca che Gesù è Signore"); Filippesi, 2, 11 (ogni lingua confessi che Gesù è Signore"). Anzi, Paolo addirittura definisce i cristiani come "coloro che invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo" (1 Corinzi, 1, 2). D'altronde, l'attribuzione al Gesù glorificato della qualifica aramaica di mâr/mârâ' (1 Corinzi, 16, 22) dice con chiarezza che si tratta di una venerazione di antica ascendenza proto-cristiana.
Anche la innologia proto-cristiana è documentata da Paolo.
A parte l'informazione generica che egli ci dà in 1 Corinzi 14, 26 ("Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione"), qui mi riferisco in particolare al brano di Filippesi, 2, 6-11, che ritengo essere con ogni probabilità pre-paolino e che in quanto tale può essere considerato "il più antico esempio di una composizione innica cristiana", anche se la sua qualifica formale di "inno" verosimilmente non è adeguata.
Certo vi manca l'interpretazione soteriologica della morte di Cristo (e proprio questo a mio parere è un indizio pesante sulla pre-paolinità del testo), ma la doppia confessione della sua pre-esistenza e dell'ottenimento di una kyriòtes/signoria da parte del crocifisso, equiparabile solo a quella divina, dà ragione a quanto scrive Martin Hengel: "L'"apoteosi del crocifisso" deve essere giunta a compimento già negli anni Quaranta, onde si ha la tentazione di affermare che nel giro di neanche due decenni il fenomeno cristologico è andato incontro a un processo le cui proporzioni sono maggiori di quelle più tardi raggiunte durante i successivi sette secoli".
Dunque, non si può pensare a Paolo senza includere necessariamente nella formazione della sua identità cristiana il ruolo decisivo svolto da coloro che egli riconosce esplicitamente essere stati in Cristo prima di lui (cfr. Romani 16, 7: hoì kaì prò emoù gègonan en Christòi, a proposito della coppia Andronico e Giunia!).
Altra cosa è poi riconoscere che Paolo non si è limitato a fare il ripetitore e che invece ha elaborato l'evangelo primitivo con una propria ermeneutica, che dimostra indubbiamente l'apporto di una personale genialità.
In effetti, come ebbe a scrivere a suo tempo Albert Schweitzer, "Paolo ha assicurato per sempre nel cristianesimo il diritto di pensare (...). Egli non è un rivoluzionario.
Parte dalla fede della comunità, ma non ammette di doversi fermare dove quella finisce (...) Egli fonda per sempre la fiducia che la fede non ha nulla da temere dal pensiero (...) Paolo è il santo protettore del pensiero nel cristianesimo"! Forse senza saperlo, con queste parole Schweitzer di fatto riformulava, applicandolo a Paolo, ciò che già aveva affermato Agostino in termini più generali: "Se la fede non viene pensata, è come se non ci fosse".
Ma non credo che questo basti per fare dell'Apostolo un altro fondatore del cristianesimo, altrimenti chissà quanti ne dovremmo calcolare!
(©L'Osservatore Romano - 7 settembre 2008)